sabato 3 marzo 2018

Ne è valsa la pena.

Tra pochi mesi, con due anni di anticipo, andrò in pensione.
In tutto saranno stati cinquant'anni passati in Università da studente, borsista, ricercatore, professore.
Cinquanta.
Per ragioni soprattutto personali ho deciso di anticipare.
Lo posso fare a cuor leggero perché da quest'anno - dopo anni in cui era parzialmente bloccato - il turn-over  è tornato a essere (mediamente) del 100%.

Ne è valsa la pena. Essere pagato per studiare è un privilegio raro.
Insegnare è un mestiere meraviglioso.
L'Università italiana è in difficoltà: da molti anni tutti i governi l'hanno bastonata con una combinazione di malafede, stupidità e ignoranza ("matta bestialitade") rubando un futuro ai giovani.
Ma è stata e rimane un posto in cui vi sono grandi presidi di cultura e di democrazia, mediamente una buona università.
Poi come dovunque ci sono cose che non funzionano (sempre più numerose), burocrazia forsennata (sempre più estesa), clientelismi e familismi (non rari, ma non così frequenti), fannulloni e incompetenti (abbastanza rari, ma ci sono).
C'erano e ci sono molte cose da cambiare; in particolare non ci siamo attrezzati bene al fatto che l'Università è diventata un'università di massa (meno di quanto dovrebbe) e che questo fatto è positivo, ma richiede interventi e risorse e un modo diverso di organizzare gli studi.
Perché la scuola di massa non vuol dire di bassa qualità e non implica la segregazione degli "eccellenti" dalle "merde" (è l'unica concessione alla volgarità che mi permetto).

Ieri, venerdì 2 Marzo, c'è stato il mio penultimo atto al nostro Dottorato.
Tre dei cinque neo-dottori mi avevano come mentore.
Fatemi dire che, aldilà del fatto che ho addottorato qualche decina di giovani, ogni volta per me è un'orgogliosa emozione.
Ma voglio dire di più.
Quest'anno tre dottorandi erano di formazione un filosofo, una giurista, una paesaggista (quest'ultima cittadina serba).
Non era male questa vocazione della nostra scuola di dottorato di essere "aperta": uno dei tanti pregi dell'esperienza di AAA.

Premetto che in tutti i casi avevo dei colleghi più "disciplinari" di me a fare da co-mentori: non sono un tuttologo.
Ma Nanni, Roberta e Nađa (o per essere più corretti Giovanni Campus, Roberta Guido e Nađa Beretić) pur non essendo stati miei studenti (per ovvie ragioni) mi hanno fatto l'onore di scegliermi in quanto i loro temi di ricerca intersecavano dei miei interessi culturali e, forse, sapevano che avrei studiato e imparato con loro (poi i mentori "disciplinari" ci avrebbero "messo in riga").
Hanno fatto un ottimo lavoro.
E penso che i risultati della loro ricerca siano utili (se vi interessano le ricerche, di cui non svelo i titoli, sono legati al rapporto tra arte pubblica e città, al diritto alla città, alle prospettive del parco geominerario della Sardegna; li ho detti volutamente male: se vi interessa contattateli).

Avrò ancora un paio di dottorandi che finiscono il corso a fine 2018 e uno (palestinese con Borsa del MAE) nel 2019.

Non vi racconto qui quali difficoltà hanno studenti non comunitari a mettersi in regola con la burocrazia italiana, nonostante l'illuminato buonsenso di molti poliziotti; del resto un Paese che non riesce a trovare soluzioni efficaci per far votare studenti fuori sede che volete che possa fare con studenti e dottorandi (ma anche con ricercatori) non comunitari.

Perché ho scritto questo post?
Non so; forse perché un po' mi dispiace che alla prossima discussione delle dissertazioni sarò già in pensione e un po' per farvi capire perché non posso proprio pensare di dare il mio voto a chi in questi anni ha attivamente collaborato a cercare di distruggere l'Università pubblica, specie quella del Sud.
E per dire che non ci sono riusciti e non ci riusciranno.
Non solo ne è valsa la pena.
Ne vale la pena, ne varrà la pena.
Anche per Nanni, Roberta e Nađa e per il loro futuro.

P.S.
In questi giorni, a poche ore dalle elezioni, sono state assegnate alle università e agli enti di ricerca le risorse per il reclutamento; briciole: all'Ateneo di Sassari 11 posti in tutto. Siamo proprio sicuri che non sia questo il tempo di mobilitarci?