Era una donna del popolo, figlia di mezzadri (e la vita dei mezzadri era dura anche quando la ricordo io che andavo negli anni ’50 a trovare la nonna e gli zii al podere): ha fatto, come amava dire con un qualche vezzo, la “terza in campagna” e all’età di tredici anni ha dovuto, come amava dire con amarezza ironica, “andare per serva” e come “serva” ha lavorato, lontana dalla sua famiglia, per quasi vent’anni, sino a che si è sposata, la notte di San Silvestro del 1949, partendo subito, quella notte stessa, per la Francia, dove mio padre era emigrato, facendo l’operaio nelle acciaierie: lì io sono nato e lì lei è vissuta per sei anni.
Negli ultimi nove anni è stata invalida e ha progressivamente perso l’autosufficienza: per merito delle molte ragazze, tutte polacche, che l’hanno assistita, era serena e contenta, anche se io scherzando, dicevo che diventava sempre più “citrulla”.
Con le sue assistenti è sempre stata buona e rispettosa.
Come figlio unico, mi ha amato di un amore costante ed eccessivo, mai egoista: tutte le mie amiche e i miei amici erano accolti con generosità e affetto; era contentissima del fatto che ero bravo a scuola, ne era orgogliosa.
Era modesta e prudente, ma non l’ho mai vista chinare la testa o umiliarsi.
Aveva la religiosità poco clericale delle donne del popolo.
Rispettava ed era rispettata.
Non mi ha lasciato un soldo di eredità e le sono grato per questo, e per tutto quello che mi ha insegnato, con l’esempio di una vita degna: un’eredità che niente mi potrà togliere.
La mia mamma Elisa mi manca moltissimo.
Cercherò di essere degno di lei anche se non potrò mai avere tutte le sue doti: per esempio lei era bellissima ed era un’eccellente ballerina.