sabato 1 febbraio 2014

Una questione morale / seconda parte. Con alcune riflessioni sulle prossime elezioni del Rettore

Qualche tempo fa dedicavo un post a una questione rilevante per le prossime elezioni rettorali, quello del precariato del personale tecnico-amministrativo.
Prima di sviluppare la seconda parte della questione, che riguarda l'altro precariato, quello della didattica e della ricerca, vorrei porre alcune questioni di metodo e riproporre in sintesi i problemi posti precedentemente.
Una questione di metodo è questa: non c'è ancora uno spazio di discussione sulle prossime elezioni a Rettore, nonostante ci siano dei candidati, uno dei quali, Giuseppe Pulina, ha anche proposto un articolato e interessante manifesto.
Mi permetto di sollecitare il Magnifico Rettore perché questo spazio venga realizzato ufficialmente: lo chiederò formalmente nei prossimi giorni; in alternativa dovrò attrezzarmi a metterne su uno io (chi fosse interessato alle mie posizioni può leggerle qui)

Nel precedente post segnalavo una situazione estremamente difficile, quella delle decine (150?) di lavoratori a tempo determinato impegnati nella gestione delle attività dell'Ateneo, gran parte di questi svolgono compiti "ordinari", ovvero occupano posizioni necessarie a far andare avanti la baracca. Non è una questione eludibile: è vero che queste colleghe e questi colleghi non votano, ma è una questione di sopravvivenza della nostra organizzazione cercare e trovare una soluzione; i candidati rettori devono produrre un piano con dei numeri precisi.

Ma c'è una seconda categoria di precari, quella legate all'attività didattica e di ricerca: contrattisti, borsisti, assegnisti, dottorandi con e senza borsa, ricercatori a tempo determinato (credo solo di tipo A).
Una pletora di posizioni diverse tra loro (anche questi non votano, tranne i ricercatori a tempo determinato).
Per l'inclita comincio da questi ultimi: la sciagurata legge Gèlmini (240/2010) ha abolito il ruolo dei ricercatori (che quindi è esaurimento) introducendo i ricercatori a tempo determinato.
Questi sono suddivisi in due categorie: la A tre anni, rinnovabili una sola volta per altri due, la B di tre anni secchi, ma con attaccata una tenure, ovvero una "posizione", che li aspetta già in organico, se passano l'abilitazione nazionale (se ci sarà ancora) e un giudizio di conferma hanno già pronto l posto di ruolo di  professore associato,
Ovviamente, poiché per bandire un posto di tipo B serve avere in magazzino le risorse (i cosiddetti "punti organico") per un posto da associato,  la totalità (credo) dei posti banditi, in modo più o meno rocambolesco, sono di tipo A (una settantina?).
Poco male si dirà: passati cinque anni quelli bravi, anche se di tipo A, che conseguiranno l'abilitazione nazionale potranno avere un posto da associato.
Ma non è così perché intanto ci saranno liste d'attesa imponenti di ricercatori del vecchio conio, abilitati anche essi. Se il quadro delle risorse rimane quel che è, la situazione può divenire esplosiva.
Che serva anche in questo caso un piano e anche - in qualche misura - commisurare alle disponibilità future di punti organico il numero di ricercatori a tempo determinato che si ingaggiano?
Questo vorremmo sentirci dire in dettaglio, numeri alla mano, dai candidati rettori.
Veniamo agli assegnisti di ricerca, che in Ateneo sono molte decine. Hanno contratti di durata variabile da uno a tre anni, rinnovabili. Alcuni di loro sono in attesa di carriera universitaria (più o meno promessa), altri sono persone anche mature, spesso di alta qualificazione, assunti per specifici progetti.
Le stravaganti anomalie delle nostre normative prevedono ora che gli assegnisti, che prima non potevano avere assolutamente altri redditi,  non abbiano più quasi vincolo alcuno per svolgere altre attività (vincoli che invece hanno. e molto srtetti,  i ricercatori a tempo pieno e in parte i ricercatori a tempo determinato); aggiungo che in linea teorica la retribuzione degli assegnisti può essere personalizzata purché superi il limite stabiliti per legge.
Per molte ragioni il numero degli assegnisti, come dicevo soggetti con caratteristiche molto diverse, è cresciuto a dismisura. Il bello è che è quasi impossibile sapere quanti sono e non c'è nessun piano di Ateneo o di Dipartimento per capire quale sarà il loro futuro.
Ho scritto rocambolesco. Molte delle risorse vengono dalla Regione, Non c'è dubbio, e la verità si dica, che la RAS ha messo a disposizione delle Università molte risorse, direi moltissime. Se con un criterio saggio e con una strategia di sistema, è un altro discorso, io direi di no.
Un modo efficiente di utilizzare queste risorse è stato assumere assegnisti di ricerca, anche chiudendo due occhi sui requisiti e sui compiti  che avrebbero dovuto in teoria avere; ma ora moltissimi sono in scadenza, le risorse per i rinnovi spesso non ci sono, ulteriori rinnovi sono impossibili. Che fare? un monitoraggio costante della situazione sarebbe utile, ma come è noto l'opacità favorisce l'esercizio discrezionale del potere.
Ci sono poi i dottorandi, anche essi molte decine. In una situazione "sana" il dottorato non dovrebbe essere soltanto il primo passo verso una carriera universitaria, accanto alla funzione di primo passo di un percorso accademico dovrebbe esserci quella di un'alta formazione molto qualificata per le professioni e la pubblica amministrazione, accanto a giovani neo-laureati dovrebbero esserci figure professionali che puntano a elevare il livello della loro preparazione e (perché no?) persone mature semplicemente "curiose".
Ma in gran parte i dottorandi si vedono come futuri docenti universitari e premono per quella peculiare forma di borsa post-doc che è da noi l'assegno di ricerca.
Non abbiamo i numeri totali (anche perché ci sono cococò e borsisti e altre figure che spesso fanno le stesse cose) e perché l'impegno che lo Statuto dell'Ateneo prevedeva all'articolo 6 di realizzare periodicamente un rapporto sul precariato da presentare in un incontro pubblico non sembra essere in cima ai pensieri di nessuno (troppo pochi voti?), ma parliamo di centinaia di persone.
Con che credibilità si può correre per la carica di Rettore se non si cerca una via d'uscita da questa situazione, anche articolata, modulare, di prospettiva?
A proposito reitero la mia offerta di occuparmi della redazione del rapporto e della preparazione dell'incontro pubblico: chiedo a Rettore e Senato accademico di darmi questo incarico o comunque di darlo a qualcuno per terminare questa attività in primavera.

Credo che il rispetto delle regole sia essenziale, così come è essenziale la trasparenza.
Rispetto delle regole e trasparenza avrebbero potuto trovare una soluzione a una questione in piedi da due anni, che si è trascinata in molteplici voti negativi, quella dell'attivazione di un nuovo corso di laurea (quello in ingegneria informatica, che in realtà ha un altro strano nome per aggirare un veto di Cagliari): io ho proposto sin dall'inizio una strada semplice e diritta: discutere con i dati alla mano di tutta l'offerta formativa, avviando a chiusura corsi senza studenti, con risultati scarsi, con bassa qualità, con scarsi sbocchi professionali, con requisiti dubbi, con duplicazioni, e investendo così risorse (non un ricercatore a TD per fare numero) sull'attivazione di corsi che possono avere una forte domanda e garantire sbocchi professionali, magari con accordi internazionali, magari in collaborazione con altri Atenei tra cui quello di Cagliari; tra essi, investendoci molto, ci potrebbe stare un corso di informatica, forse completo.
Dedicherò alla questione dell'offerta formativa un prossimo post.